Egr. Direttore,
mi permetto di scriverLe alcune considerazioni relativamente ai progetti infrastrutturali e viabilistici progettati per il territorio abbiatense e zone limitrofe. Nel dibattito sono entrati differenti soggetti, inclusi operatori del settore agricolo, ma a mia memoria non ho ancora sentito alcun rappresentante del settore apistico esprimersi sull’argomento. Senza alcuna pretesa di rappresentare qui il settore e senza alcun mandato da parte di associazioni di categoria, ma a titolo puramente personale e da semplice apicoltore nonché divulgatore scientifico per alcune riviste e siti web nazionali del settore (tra cui Apitalia e Apicolturaonline.it), è mia intenzione condividere con Lei e con i suoi lettori alcune riflessioni.
L’importanza delle api in ambito ecologico è stata recentemente riaffermata e diffusa, anche con un notevole impegno massmediatico, a seguito del preoccupante declino mondiale delle popolazioni di api. Molti studi sono stati prodotti e verranno prodotti per spiegare e comprendere i fattori che causano tale declino, fino a provocare fenomeni molto gravi come la “sindrome dello spopolamento degli alveari” (scientificamente Colony Collapse Disorder, CCD), termine coniato da scienziati americani in seguito alle enormi perdite di colonie d’api verificatesi in America del Nord nel 2005. Tale fenomeno ha coinvolto anche numerosi Paesi dell’Europa occidentale, tra cui Spagna, Francia, Italia, Regno Unito, Paesi Bassi, Germania, Svizzera, Belgio. Si tratta di morìe mai verificatesi prima per quantità e densità di popolazioni colpite ed il fenomeno è particolarmente preoccupante, oltreché per le ricadute negative ed economiche verso il settore apistico, in ragione del servizio di impollinazione fornito dalle api (così come da altri impollinatori selvatici), dal quale dipende la biodiversità vegetale e quindi la catena alimentare (secondo stime della FAO, delle 100 specie di colture che forniscono il 90% dei prodotti alimentari in tutto il mondo, 71 specie sono impollinate dalle api. In Italia, il 79% della produzione agricola è beneficiata dall’impollinazione. La produzione dell’80% delle 264 specie di colture coltivate nell’Unione Europea dipende direttamente dagli insetti impollinatori). Sulla base dei rapporti delle Associazioni apistiche, nell’inverno del 2007-2008 le perdite di alveari nel nord dell’Italia sono arrivate al 40%, con picchi superiori al 50% in alcuni areali. Ormai i dati medi annui delle perdite si attestano attorno al 30%, salvo ritocchi in negativo. Questo stato di cose deve interessare anche i non addetti ai lavori perché avere a cuore la sopravvivenza delle api significa avere a cuore la sopravvivenza delle altre specie vegetali e animali, uomo compreso. Diversamente, rischieremmo di ignorare per
superficialità una catastrofe ecologica senza precedenti, possibile e non troppo remota nel tempo.
Le cause alla base del declino delle api sono molteplici – biotiche e abiotiche – e di non secondaria importanza, accanto al ruolo sempre maggiore e prevalente di parassiti e patogeni, agli effetti negativi degli agrofarmaci e ai mutamenti climatici, vi è senza dubbio anche l’antropizzazione, la presenza di monocolture, la devastazione degli ecosistemi naturali. Non a caso, benché il problema sia di rilevanza mondiale, i casi di CCD sono maggiormente concentrati e frequenti in occidente (USA e Europa occidentale), ovvero nelle aree maggiormente industrializzate (in senso agricolo e non solo) e sviluppate (infrastrutture, centri urbani etc). Questo ultimo punto si collega al consumo di suolo e ai progetti infrastrutturali che, insieme ad altre opere di antropizzazione, alterano sensibilmente o portano alla scomparsa gli habitat naturali propizi alla sopravvivenza degli impollinatori. Non si tratta di opinioni personali. Di fronte a consistenti mutamenti dell’ambiente, ci si chiede che cosa resti delle risorse (polline e nettare) necessarie al mantenimento dello stato di salute degli alveari e, soprattutto, quanto l’antropizzazione possa incidere non solo sulla disponibilità quantitativa di nutrimento, ma specialmente sulla disponibilità qualitativa, che risulta strettamente collegata alle caratteristiche degli habitat naturali (tra cui la polifloralità) e quindi alla biodiversità. M. Couvillon e colleghi (2014), in due anni di ricerca, hanno decodificato più di 5.600 danze delle api messe in relazione alle fonti floreali. Questi ricercatori hanno verificato con gli alveari studiati che le api sfruttano preferibilmente habitat naturali, considerando meno interessanti aree sottoposte a sfruttamento agricolo e antropizzate in cui si verificano condizioni di monofloralità. Da ciò si deduce che le api prediligono condizioni naturali di polifloralità, e questo non a caso ma in ragione della maggiore ricchezza nutrizionale di questi pascoli e quindi dei mieli derivati (differente apporto di fenoli, ad esempio) da quelle fioriture (Johnson e colleghi 2012; Mao e colleghi 2013; Perna e colleghi 2013). Tutto ciò è di notevole importanza rispetto alla sopravvivenza delle api considerato che la nutrizione (specialmente in termini di apporto pollinico, quindi proteine) è quanto di più necessario al mantenimento delle competenze immunitarie di un alveare (Corby e colleghi 2013). Un dieta povera in termini qualitativi oltreché quantitativi comporta un sistema immunitario debole ed una maggiore vulnerabilità e suscettibilità delle api ai patogeni e pesticidi, e vi è una relazione molto precisa tra alimentazione pollinica e stato di salute delle api (Di Pasquale e colleghi 2013). Sembrerebbe al contrario che le condizioni di polifloralità, quindi gli habitat naturali, siano condizioni ottimali. Nei casi di CCD studiati negli USA, si sono evidenziati fattori molteplici di mortalità e sono state riscontrate, accanto a patogeni e fitofarmaci (pesticidi), anche condizioni ambientali sfavoreli e stress ad esse correlate. Vi è pertanto una stretta relazione tra le
condizioni del pascolo per le api (e quindi l’apporto nutrizionale che ne deriva) e la vulnerabilità a patogeni e/o fattori di stress diversi. Logicamente l’antropizzazione, il consumo di suolo e le infrastrutture, così come le monocolture, contrastano sensibilmente, fino nei casi peggiori ad eliminarle, le condizioni ottimali e naturali di polifloralità (quindi biodiversità), creando un ambiente fondamentalmente ostile agli impollinatori e quindi alle api.
Venendo al caso specifico del territorio abbiatense e dei territori limitrofi (Parco Agricolo Sud in testa), mi chiedo se la presenza delle monocolture e delle infrastrutture già esistenti, considerato inoltre il consumo di suolo sin qui verificatosi per effetto dell’espansione dei centri urbani, non sia già ben oltre la soglia di rischio e se non si sia già provveduto alla devastazione di un ecosistema naturale, con le conseguenze – solo apparentemente settoriali – che ho inteso spiegare in questa lettera riportando alcuni dati scientifici, senza naturalmente alcuna pretesa di completezza, impossibile in questa sede. Si è voluto semplicemente invitare ad una riflessione che è tanto di ordine generale quanto particolare. Si sono voluti inoltre indicare alcuni elementi oggettivi che dimostrano come alcune battaglie di tutela dell’ambiente sono fondate e motivate, e come possano derivare dalla distruzione di habitat naturali delle conseguenze tanto sottili quanto gravi. Per questa ed altre ragioni che meriterebbero approfondimenti, da apicoltore e cittadino abbiatense, ho ritenuto di condividere le ragioni espresse nello specifico dal Comitato abbiatense “NO Tangenziale” e dagli altri Comitati affini, in contrasto con un’ennesima opera infrastrutturale pensata per un territorio, a mio avviso, già saturo e congestionato.
Luca Tufano, apicoltore