L’auto «vacca sacra» del ventesimo secolo
La mucca puzza, l’auto puzza e inquina
Guido Viale
La strada e la piazza (agorà) sono «spazio pubblico» per eccellenza, così come l’abitazione e l’impresa sono per eccellenza spazi privati. Lo spazio pubblico è il luogo di incontro fisico o virtuale – cioè di confronto, di mediazione, di cooperazione, ma anche di conflitto e di scontro – tra i diversi interessi che si costituiscono all’interno degli spazi privati. La strada è un bene comune, esposto, come tutti i beni pubblici a quella Tragedy of the Commons evidenziata nel 1968 dall’economista inglese Garret Hardin: se tutti ritengono illimitato il proprio diritto a usufruire di un bene pubblico, la sua capacità di carico verrà superata e il bene, il common, si deteriorerà o scomparirà a detrimento di tutti. La maggior parte di noi, cittadini dell’Occidente, ma ormai anche larga parte dei cittadini del resto del pianeta, è stata portata a credere di essere titolare di un diritto illimitato a occupare lo strade – e soprattutto le strade urbane – con le proprie automobili. Basta comperare un’automobile (non tutti, per la fortuna degli automobilisti, ce l’hanno) e questo diritto non te lo toglie nessuno. Per questo lo spazio pubblico consegnato alle automobili si è deteriorato e è praticamente scomparso come luogo di vita e di incontro degli umani.
E con lo spazio pubblico è scomparsa l’essenza stessa della vita urbana: la convivenza, l’incontro e il confronto non programmato o istituzionalizzato di pratiche, stili di vita, culture, storie diverse. Cioè, la base materiale della democrazia, e anche ciò che ha fatto della città nella storia la sede privilegiata dello sviluppo culturale e dell’innovazione.
L’automobile prolunga infatti sulle strade, rinserrandoci tra le sue lamiere, l’isolamento e l’idiotismo della vita privata.
Il pensiero dominante risponde alla tragedy of the commons con l’encolsure, la recinzione, l’appropriazione privata: per salvaguardare il bene pubblico – nel nostro caso, la strada – occorre privatizzare: non tanto l’infrastruttura (anche se le autostrade sono state privatizzate), quanto il diritto di accesso. Attraverso una tariffa di ingresso il mercato, provvederà a regolamentarlo in modo da salvaguardare la risorsa e svilupparne la produttività e il benessere che questa non mancherà di generare. Questa soluzione attenua sicuramente l’impatto negativo del traffico – il congestion charge di Londra, Hong-kong, Singapore, e ora anche di Stoccolma, sono esempi di successo di questa misura -, riduce l’inquinamento, penalizza i poveri e premia i ricchi: e fin qui tutto è «in regola» con i principi del libero mercato. Ma rischia di paralizzare la città, se le persone appiedate non troveranno a disposizione per tempo servizi pubblici alternativi e di capacità adeguata per spostarsi. E, soprattutto, rischia di bloccare il metabolismo urbano, perché non è detto che l’importanza delle funzioni urbane – cioè delle attività che ciascuno di noi svolge – corrisponda alla capacità di pagare la tassa di ingresso in città.
La congestione del traffico rappresenta un classico esempio di «fallimento del mercato».
La vera alternativa allo stato di cose esistente consiste nel dichiarare «area protetta» il bene pubblico rappresentato dalle strade urbane, e di sottoporle a vincoli rigorosi che garantiscano la salvaguardia delle sue funzioni più proprie; così come l’istituzione di aree protette (i parchi) affronta e risolve il problema della salvaguardia dei beni naturalistici assai meglio di quanto abbiano fatto le enclosures: sia dal punto di vista del valore – non solo ambientale, ma anche economico – delle risorse, che, ovviamente, da quello dell’equità. Dichiarare le strade urbane area protetta significa vietarle al traffico privato: cioè a tutti quei veicoli che non svolgono un servizio pubblico o di pubblica utilità: caratteristiche, queste, che vanno valutate e negoziate in modo mirato, caso per caso, e che possono variare nel tempo e a seconda delle circostanze; una valutazione e una negoziazione che rientrano tra i compiti di assoluta priorità delle autorità che hanno in carico la gestione del territorio. Ma può un amministratore pubblico, un partito, una coalizione, presentarsi alle elezioni prospettando l’abolizione del traffico privato? Certamente no.
Questo dovrebbe essere, per cominciare, compito degli uomini di cultura: urbanisti, economisti, sociologi, medici, meteorologi, giornalisti, insegnanti, scrittori e artisti: tutta gente che oggi è lontana mille miglia anche solo dal concepire una cosa del genere e che in questa abdicazione trova una delle cause della perdita del proprio ruolo.
Ma, attenzione! La storia va avanti. Cinquanta-sessanta anni fa i democristiani batterono ripetutamente le sinistre spiegando ai contadini che se avessero vinto «i rossi», questi gli avrebbero portato via la vacca dalla stalla. In parte era una menzogna, perché nessun comunista italiano ha mai pensato di portar via la vacca al contadino. In parte aveva un fondamento, perché in Unione sovietica i comunisti avevano effettivamente portato via vacche e maiali ai kulaki, facendoli morire di fame. Poi, però, in Italia era arrivato il miracolo economico e il «benessere» aveva raggiunto anche le campagne; i contadini rimasti si erano trasformati in agricoltori; le vacche erano state trasferite in allevamenti di massa (peraltro tutt’altro che razionali) e tutti avevano imparato a comprare latte e carne al supermercato.
Se oggi qualcuno proponesse agli agricoltori di riprendersi qualche vacca in casa – o addirittura di vivere con loro nello stesso locale, per riscaldarsi durante l’inverno, come si faceva un tempo – verrebbe mandato al diavolo. Perché? Perché la vacca in casa o nella stalla di casa sporca, puzza, richiede cure continue e rende molto meno che dedicarsi a altre attività; a meno che non lo si faccia in modo industriale, magari lucrando sulle quote-latte. Lo stesso accade oggi con l’automobile.
Se qualcuno proponesse di affrontare una campagna elettorale promettendo di portare via l’auto a chi sacrifica metà del proprio reddito a questa «vacca sacra» (Lewis Mumford) del ventesimo secolo, verrebbe cacciato a furor di popolo: tanto è vero che non manca mai chi punta a lucrare popolarità con la difesa a oltranza del diritto di ciascuno a usare e parcheggiare la propria automobile quando e dove gli pare e piace. Ma le tecnologie informatiche renderanno presto obsoleto il possesso di una o più automobili personali, perché la mobilità flessibile (car-sharing, taxi collettivo, trasporto a domanda, trasporto pubblico di linea su strade sempre più sgombre) offrirà servizi di mobilità urbana più personalizzati (veramente porta-a-porta), più veloci, più comodi, più economici e soprattutto con un minore impatto sull’ambiente. E perché sarà diventata evidente la parabola discendente del petrolio; le auto e il carburante costeranno sempre più cari, mentre i combustibili alternativi come metano e idrogeno saranno a malapena sufficienti – se va bene – a alimentare flotte pubbliche di non più di un quinto del parco veicoli attuale.
Allora, anche senza che gli intellettuali glielo spieghino e i politici glielo impongano, la gente avrà capito che l’auto individuale sporca, puzza (quello l’ha già capito adesso), richiede cure continue da parte del suo proprietario, blocca la mobilità e offre benefici sempre minori a costi sempre più elevati. Tra l’altro, se non si potrà più circolare con la propria auto né a Torino né a Milano, diventerà sempre più assurdo utilizzarla per andare da Torino a Milano: sempre che ci siano soluzioni alternative.
Ma come procedere? L’importante è abbandonare gli alibi, come le targhe alterne, la cacciata delle auto non catalizzate, i parcheggi – sotterranei, in struttura, di interscambio – i sovrappassi, i sottopassi, i semafori intelligenti, l’area e il road-pricing, i carburanti puliti, la rottamazione ecologica, l’avvento dell’idrogeno, le auto a emissione zero, ecc. Tutte cose utilissime se contribuiscono a ridurre il numero delle auto in circolazione; ma controproducenti se – ed è il caso di molte di esse – concorrono solo a aumentare il parco veicoli in circolazione.
L’obiettivo di lungo periodo è rendere del tutto inagibili le strade al traffico privato. Per questo, tanto prima la gente si convincerà che ogni spesa personale in automobili, come il rinnovo del mezzo o l’acquisto di un garage, rischia di diventare un investimento «a perdere», tanto meglio sarà: il che è esattamente l’opposto di quello che la cultura in auge – anche e soprattutto ambientalista – crede e si affanna a far credere.