È impressionante come il caso Volkswagen sia già stato confinato alle rubriche economiche, ridotto a uno scandalo isolato, dove il problema è al massimo cercare un capro espiatorio, per esempio qualche cattivo manager.
Sarebbe stata un’occasione per discutere temi fondamentali della nostra vita e di quella dei nostri figli. Per esempio, se valga davvero la pena di distruggere il Pianeta in nome del profitto.
Nonostante gli alti moniti, dal Papa al presidente Usa, sui rischi letali per l’umanità di questo modello produttivo – impegni e moniti senz’altro ribaditi alla conferenza sul clima di Parigi – le grandi compagnie fanno come vogliono e la politica lascia fare.
Da anni si avvelena la Terra con pesticidi e concimi chimici e con una criminale gestione dei rifiuti; i pericolosi processi di privatizzazione delle acque vanno avanti ovunque; si disboscano le foreste amazzoniche, dopo aver deportato i popoli che le hanno sempre protette; il ciclo produttivo inventa di continuo produzioni altamente tossiche (e altrettanto redditizie), che vengono riconosciute come tali solo dopo anni, come nei casi dell’Eternit o dell’Ilva; e così via.
Poi, in coincidenza con l’ennesimo «anno più caldo della Terra», si convoca un rito collettivo, dove i governanti fingono di battersi il petto e di assumere solenni impegni per nuove leggi e rigidi controlli, puntualmente smontati nei Parlamenti nazionali dall’azione delle lobbies.
Basti dire che tutta la rigorosa normativa in tema di emissioni nocive si basa sul sistema dell’autocertificazione. Le regole sono in teoria severissime, ma il controllo è quasi tutto affidato ai costruttori di auto. Un capolavoro di ipocrisia.
E tutto ha funzionato perfettamente fino a che a un’università americana non è venuta l’idea di fare una prova su strada e scoprire che i valori reali erano fino a 40 volte quelli denunciati.
Ma non è vero che il capitalismo cattivo sia l’unico responsabile. Il cliente del Suv sa bene di acquistare un’auto che inquina, ma non gliene frega nulla, vuole sentirsi il re della strada.
Ogni volta che viaggio sulle autostrade californiane, dove c’è una corsia semivuota per il «pool car», ovvero le auto con più di un passeggero, e altre quattro intasate di auto col solo guidatore, rifletto su quanto sia folle un sistema di trasporti fondato sul consumo individuale, dove milioni di persone bruciano miliardi di carburante per viaggiare alla stessa velocità che raggiungerebbero in groppa a un asino.
Vogliamo cominciare a smettere con la droga dell’automobile?
Curzio Maltese,
La Repubblica
4 dicembre 2015